La favola di Cosimo. Da Eboli alla Svizzera per difendere i diritti
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E’ partito esattamente da dove Cristo si era fermato. Da Eboli. In direzione inversa, andando a cercare il pane in Svizzera. Bellissimo ritrovarlo ieri, trent’anni dopo il nostro primo e unico incontro. Per festeggiare insieme la Liberazione che di anni ne fa settanta. Le grandi navate della vita personale e nazionale ogni tanto si incontrano. Rieccolo dunque, più elegante di quando lo avevo lasciato, un abito scuro al binario del treno in arrivo da Milano. Cosimo Titolo è un signore vicino ai settanta che ha passato la vita dandosi da fare per i suoi connazionali. Per trent’anni è stato presidente dell’organo di rappresentanza dei nostri immigrati nella circoscrizione consolare di Berna. Una volta si chiamavano Co.co.co (Comitati di coordinamento consolare, ma si vede che la sigla piace…), ora sono i Comites, Comitati degli italiani all’estero.
La prima volta che lo vidi me lo immaginai iscritto al partito comunista. Non perché mi si fosse presentato così al telefono. Ma per la somiglianza, che allora mi apparve impressionante, e che ora si è fatta assai più lieve, con Enrico Berlinguer, il leader comunista per definizione. Stesso fisico asciutto, stesso intaglio del viso e dei capelli, stessa sobrietà e pacatezza dell’eloquio. “In effetti avevo iniziato a simpatizzare per il Pci già a Eboli, da ragazzo. Non ero iscritto, mi sono iscritto dopo, quando sono sbarcato qui. Bisogna averla vissuta la nostra vita. Arrivai in Svizzera a diciott’anni, quando l’ambasciata neanche ci faceva entrare. Per noi c’era solo uno sportello, eravamo tenuti all’aperto, al freddo, stavamo in fila a centinaia soprattutto il sabato, con la polizia svizzera che ci sorvegliava con i cani lupo.
Si poteva arrivare solo con un contratto di lavoro e comunque prima di entrare ti facevano la visita medica a Briga, al confine. Per vedere se eri idoneo, se no ti rispedivano a casa.” Dai ricordi di questo signore ormai incanutito emergono immagini in bianco e nero, roba di mezzo secolo fa, colpevolmente sbiadite nella memoria di una nazione. Erano i tempi in cui in alcuni ristoranti affiggevano i cartelli con il divieto d’ingresso “agli italiani e ai cani”. Mario, il signore che è con lui, è giunto prima, cinquantasette anni fa, e ricorda quando la domenica mattina gli italiani si ritrovavano in massa davanti alla stazione, come oggi gli immigrati dell’est sui piazzali italiani.
“Lavoravo nei cantieri”, continua Cosimo, “e presto iniziai a frequentare un corso di formazione per operai. Tre anni. Naturalmente la sera e il sabato, perché gli altri giorni si doveva lavorare. Alla fine trovai posto in una fabbrica di meccanica di precisione. Ci sono rimasto fino al ’97. Nell’ ’85 ho aperto anche un negozietto nella cittadina in cui abito, Thun. Abbigliamento sportivo, lo gestiva mia moglie.” La moglie di Cosimo è una signora della provincia di Catanzaro. Hanno avuto due figli, il primo, ci credereste?, si chiama Italo, da Italia, il nome della nonna paterna. L’altro Rolando. Poi un negozio a Berna, più tardi un altro negozio a Zurigo. A cui si dedicano ora anche lui e un figlio. “Oggi”, comunica Cosimo con orgoglio, “abbiamo quaranta dipendenti”.
E il partito, Cosimo? “Sono ancora iscritto. Pd, ma non so per quanto tempo”. Gli brillano gli occhi di nostalgia per quella cosa speciale a cui si iscrisse quando il partito in Svizzera era clandestino, “tanti compagni sono stati espulsi dalla fabbrica”. Una militanza che ha dato però dei frutti. I diritti degli immigrati, per esempio, i comitati il cui parere è oggi obbligatorio per legge sulle tante attività promosse per l’immigrazione, a partire dall’insegnamento della lingua ai figli degli italiani. “Facciamo mostre di pittura, convegni, organizziamo le colonie marine per gli anziani, a Rimini e in altri posti a basso prezzo, pensiamo a tutto noi, loro ci mettono un contributo economico. Ogni tanto facciamo dibattiti, ospitiamo parlamentari. E allora qualcuno si scandalizza e dice ‘ma così facciamo politica’. Ma perché, rispondo io, dovremmo vendere noccioline? Dovremmo solo giocare a carte?”
Oggi, dopo trent’anni di impegno in prima fila (“e ogni tanto ho messo a dura prova il cuore…”), è prossimo all’abdicazione. Alle ultime elezioni per il Comites non si è ripresentato: largo ai giovani, il prossimo 6 maggio scade formalmente. Si gode questa festa della Liberazione nel salone affollatissimo del secondo piano della Casa d’Italia, l’ambasciatore, il coro, l’inno nazionale e “Bella ciao”. E un po’ di commozione tricolore. A lui vadano i giusti onori. Se il 25 aprile è sempre più la grande festa degli italiani liberi, di un popolo che si è tenuto insieme nei suoi drammi, nelle sue conquiste, nelle sue cialtronerie e soprattutto nella diaspora infinita, il merito è anche di quelli come lui. E come i suoi amici. “I miei figli? Hanno la doppia cittadinanza, italiani e svizzeri”. Cosimo invece, nonostante i cinquant’anni di Svizzera, nonostante qui sia diventato nonno e abbia fatto fortuna, di cittadinanza ne ha una sola. Lo dice come se avesse obbedito all’undicesimo comandamento: “Io e mia moglie? Noi abbiamo solo la cittadinanza italiana.”
Scritto da Nando dalla Chiesa