ACCORDO FISCALE: ARMISTIZIO O PACE DURATURA?
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“Tanto rumore per nulla? C’è chi lo teme. Eppure l’accordo fra Italia e Svizzera, siglato a Milano lo scorso 23 febbraio, è indubbiamente un passo verso la normalizzazione dei rapporti fra i due Paesi, che negli ultimi tempi sembravano non reggere al logorio della tensione. È vero. Per ora si tratta di un Protocollo di modifica alla Convenzione tra la Confederazione e la Repubblica Italiana in materia di doppia imposizione fiscale del 9 marzo 1976, il cui ultimo emendamento datava del lontano 28 aprile 1978. Precisazione quest’ultima, che fa arricciare il naso agli esperti, per i quali, in termini di fiscalità internazionale, il lasso di tempo tra il 1978 e il 2015 è considerato alla stregua di un’era geologica”. Inizia così l’editoriale con cui Giangi Cretti apre il nuovo numero de “la Rivista”, mensile che dirige a Zurigo.
“È vero anche, nessuno lo contesta, che, dopo anni di rimbalzi e di rinvii, all’accordo si è giunti grazie all’accelerazione impressa dall’approvazione della legge sulla riemersione dei capitali italiani depositati all’estero. Quella ormai conosciuta come voluntary disclosure, o collaborazione volontaria (qualcuno la considera un ravvedimento operoso), che lo stesso responsabile dell’Ufficio centrale per il contrasto agli illeciti fiscali internazionali (Ucifi) dell’Agenzia delle Entrate, in un convegno organizzato a Lugano dalla Camera di Commercio italiana per la Svizzera, ha definito “una proposta che non si può rifiutare”.
D’altronde, fanno notare ancora gli esperti, l’unico emendamento negoziato è la modifica dell’articolo sullo scambio di informazioni; modifica, per altro, che risulterà superata dallo scambio automatico al quale la Svizzera aderirà a partire dal 2018 per dati raccolti nel 2017. È vero anche questo, ma è pur sempre la conditio sine qua non che, in materia fiscale, consente, da subito, alla Svizzera, di non figurare più sulla famigerata lista nera, e, almeno in quest’ambito, ha posto fine ad un clima di diffusa incertezza.
Come sempre accade si può discutere a lungo su chi (in questo caso: quale dei due Paesi) tragga maggior vantaggio. Le teorie s’intrecciano: a quella che sostiene che i due contendenti debbano sentirsi allo stesso modo insoddisfatti, fa da contraltare quella che ripete come un mantra che entrambi debbano sentirsi vincitori (il classico principio win win). La cosa su cui si può concordare è che grave sarebbe, se ve ne fosse uno solo a risultare sconfitto. Volendo ricorrere alla metafora calcistica utilizzata dall’Ambasciatore italiano in Svizzera, si potrebbe chiosare che un buon accordo è come una partita conclusa con un pareggio con molte reti.
Ora tutta l’attesa si concentra sul modo in cui la road map, che dell’accordo è comunque parte integrante, prenderà forme concrete nei prossimi mesi. Da affrontare ci sono questioni di tutto rilievo inerenti le nuove basi giuridiche definite in ambito europeo, la regolarizzazione del passato, il perseguimento penale degli istituti finanziari e degli impiegati, l’imposizione dei lavoratori frontalieri (nuova definizione, maggiori controlli, maggior peso delle imposte), l’accesso al mercato finanziario italiano, l’uscita della Svizzera dalle black list per le imprese, lo status fiscale di Campione d’Italia.
Nel frattempo, registriamo segnali positivi. All’Italia si torna a guardare con rinnovata attenzione. Percezioni, ma anche dati di fatto. Ne è testimonianza la dichiarazione di Sergio Ermotti CEO del gruppo UBS, che, in occasione dell’italo-svizzero organizzato dalla CCIS a Zurigo lo scorso 11 marzo, ha detto che l’Italia è un Paese sul quale investire.
Va da sé: è implicito il fatto che, dal punto di vista delle banche, l’interesse sia quello di potere avere accesso al mercato finanziario italiano. Al momento, su questo aspetto, siamo ancora allo stato di aspirazioni (da una parte) e di buone intenzioni (dall’altra). La speranza è che non generino cattive interpretazioni”.
Giangi Cretti