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LA GESTIONE DEL BAMBINO AUTISTICO A SCUOLA - Relazione del dott. Emidio Tribulato (2.a parte)

La comunicazione
Se riusciamo ad instaurare questo tipo di relazione ci accorgeremo molto presto del loro grande desiderio di comunicare.

Anche in questo caso però, abbiamo il dovere di accettare in modo pieno ed incondizionato il loro modo di comunicare senza mai imporre il nostro.

Ciò non è così semplice come sembra. Anzi è talmente difficile che spesso siamo disposti ad applicare tutti i tipi di terapie nei loro confronti: logoterapia, ippoterapia, psicomotricità, delfino terapia, terapia occupazionale, terapia del comportamento, ecc.. ma non siamo disponibili ad attuare un dialogo che tenga conto dei loro desideri, dei loro bisogni e delle loro esigenze.

Questo tipo di dialogo è difficile in quanto in ogni adulto che si confronta con un bambino, specialmente se questo adulto ha il ruolo di insegnante, tende a prevalere in modo deciso l’atteggiamento educativo.

Quest’atteggiamento è tanto più eclatante nel rapporto con un bambino affetto da disturbo autistico.

Se le sue parole o i suoi gesti inconsulti, inusuali e stereotipati ci mettono in imbarazzo ed in difficoltà davanti agli altri, cosa fare se non pregarlo di non comportarsi in questo modo, oppure minacciarlo, punirlo o bloccarlo, affinché smetta, una buona volta, di dire cose inutili o desista nel compiere quei gesti sempre uguali che ci esasperano e umiliano come genitori e come operatori?

Se egli non ci guarda direttamente negli occhi.
Questo suo atteggiamento ci umilia, ci confonde, ce lo fa sentire lontano, per cui cercheremo di fare la cosa che ci sembra più giusta e corretta che può essere quella di stimolarlo in ogni modo a guardarci, interpellandolo o mettendoci davanti a lui. Se non accetta il contatto con il nostro corpo e non si fa abbracciare o, peggio, non vuole che sia toccata la sua mano, come dimostragli il nostro amore se non stringendolo di più a noi?

Se non parla, cosa fare se non insegnargli a parlare?

Come accettare poi che egli si faccia volontariamente del male?
Che sbatta la testa nel muro? Che si dia pugni nel viso o nel corpo? Che si laceri la pelle con le unghie? Che si morda le dita? Che sbatta i giocattoli o le bambole al muro? In tutti questi casi è istintivo e ci sembra anche logico e consequenziale rimproverarlo o fargli capire in maniera a volte delicata, altre volte, quando siamo esasperati, in maniera brusca, che “questi gesti non si fanno, che non è bello, che non è giusto, che i bambini buoni ed educati non fanno queste cose”. Ci sembrerà, pertanto, spontaneo ma anche logico intervenire, anche fisicamente, per togliere le mani dal suo viso o dalle braccia per evitare che si graffi: Ci sembrerà logico e naturale allontanarlo dalla parete su cui sbatte il capo o strappargli dalle mani la povera bambola che sta picchiando e sbattendo al muro senza apparente motivo.

Se parla, ma ripete in modo sgrammaticato le frasi che ha sentito dalla mamma o da altri adulti come trattenersi dal correggerlo e dal cercare di fargli pronunziare le frasi in modo corretto?

E se ride quando non dovrebbe, in modo incongruo, sgangherato e senza alcun costrutto, come non cercare di correggerlo perché manifesti la sua allegria nei modi e nei tempi opportuni?

Per non parlare delle attività didattiche.
Se ha tre - quattro anni il nostro dovere ed impegno didattico ci porterà a cercare di fargli effettuare tutte le attività che possono preparare le sue mani e la sua mente al grafismo, alla lettura, al numero, al calcolo, alle relazioni spazio-temporali e così via. Se ha compiuto cinque – sei anni ci sentiremo impegnati e responsabilizzati affinché apprenda la tecnica della lettura, della scrittura, individui e utilizzi i numeri e le quantità e, se possibile, conosca alcuni degli argomenti studiati nella sua classe di appartenenza.  

Purtroppo, tutti questi comportamenti che ci sembrano logici, spontanei e naturali non sono utili a questi bambini, anzi peggiorano il loro mondo interiore e quindi fissano ancor di più o accentuano i loro disturbi.

Dobbiamo riuscire a comportarci in modo diverso, molto diverso da come di solito facciamo e da come istintivamente vorremmo operare.

Possiamo riuscire in questo se pensiamo a questi come a dei bambini costretti a vivere giorno per giorno una grande sofferenza. Questa sofferenza li stimola a difendere il proprio Io dall’angoscia che potrebbe sommergerli, utilizzando strumenti primitivi di difesa, come possono essere la chiusura nei confronti del mondo esterno o l’uso di stereotipie. Per tali motivi non dobbiamo assolutamente essere noi a proporre il modo giusto di comunicare ma devono essere loro a scegliere di volta in volta i momenti e le forme più opportune di dialogo. Perché solo loro sanno quello che in quel momento si agita nel proprio animo e, quindi, solo loro conoscono ciò di cui hanno bisogno in un determinato momento e non noi. 

Mettiamoci in ascolto del loro animo con grande empatia in modo tale da capire immediatamente ciò che fa loro piacere e ciò che li fa soffrire. Ciò che li libera e ciò che li limita o blocca.

Rispettiamo il loro spazio psicologico e fisico. Anche questo atteggiamento e comportamento non è facile attuarlo in quanto vorremmo che questi bambini capiscano subito o comunque rapidamente che noi siamo loro amici, che gli vogliamo bene, che non abbiamo nessuna intenzione di far loro del male. Per raggiungere questo obbiettivo il modo migliore ci sembra quello di avvicinarci il più presto possibile al loro corpo, così che avvertano meglio i nostri sentimenti. Purtroppo, però, nel rapporto con questi bambini questo comportamento è errato in quanto, dall’altra parte, vi è tanta paura e tanta diffidenza. Poiché questi bambini hanno paura del mondo e degli altri esseri umani, limitiamo al minimo l’impatto che potrebbe avere sul loro animo la nostra presenza fisica, in modo tale che non l’avvertano mai e in nessun momento come invasiva. Inizialmente il posto migliore che possiamo scegliere è quello più lontano da loro, aspettando di capire quando è il caso di avvicinarci un po’ di più per collaborare al loro gioco. Ma se notiamo fastidio per questo nostro comportamento attendiamo con animo sereno, gioioso, disponibile e fiducioso che siano loro, dopo qualche minuto, qualche ora o qualche giorno a diminuire questa distanza fisica. Nel momento in cui avranno più sicurezza in sé stessi, più fiducia in noi, più stima di noi, meno paura, sicuramente lo faranno. Si avvicineranno inizialmente utilizzando dei contatti apparentemente casuali o mediati da un oggetto o da un gioco, ma poi, gradualmente, ci faranno capire il loro desiderio di un contatto fisico più prolungato e coinvolgente.

Evitiamo di porci come insegnanti. Di fronte a dei bambini che non parlano, non leggono, e, a volte, non conoscono o mostrano di non conoscere molti elementi culturali; di fronte a dei bambini che ai nostri occhi e al nostro metro di giudizio si comportano male o in modo non adeguato alle circostanze, siamo portati ad insegnare: a parlare, a comunicare, a ben comportarsi con gli altri e verso di noi.

Bisogna saper resistere a questa forte tentazione in quanto i bambini affetti da autismo non hanno nulla da imparare fino a quando non manifestano apertamente il loro desiderio di apprendere. Evitiamo allora di porci come l’insegnante di fronte all’allievo. Anche se siamo insegnanti; anche se loro sono nostri allievi; anche se sono stati inseriti a scuola per imparare; anche se la scuola è il luogo in cui si insegna ed in cui si apprende. L’imparare è l’ultima delle loro necessità e l’ultimo dei loro bisogni. Mostriamoci invece noi desiderosi di apprendere.

Dobbiamo essere noi ad imparare ad amare il silenzio, in quanto questi bambini più di ogni cosa, cercano un ambiente silenzioso, tranquillo e sereno. Non c’è nulla che dia loro più fastidio del continuo vociare, mentre, al contrario, il silenzio li quieta.

Dobbiamo noi imparare a non muoverci e agitarci troppo, in quanto i nostri movimenti, specie se bruschi, li disturbano e li spaventano.

Dobbiamo noi imparare a restare alla giusta distanza da loro e a partecipare con gioia ai loro giochi. Se siamo disposti a fare tutto questo. Se siamo disposti a stare zitti. Se siamo disposti a non programmare per loro nessuna attività e nessun gioco allora, dopo qualche settimana o, al massimo, dopo qualche mese, ci accorgeremo con immensa gioia che qualcosa di molto importante è cambiato nel mondo interiore di questi bambini. Dal viso più disteso scopriremo che il loro animo è, ora, più sereno. Dall’aumento dei momenti nei quali riusciamo ad essere in comunione con loro, dal maggiore attaccamento nei nostri confronti, ci accorgeremo che il muro che avevano creato per difendersi dagli altri si sta sgretolando gradualmente, mentre sempre più spesso e per un tempo maggiore, sono disposti a lasciare appesa al muro la corazza che li proteggeva dal “mondo cattivo”.  Dopo qualche giorno o al massimo dopo qualche mese, noteremo che riescono più facilmente e per un tempo più lungo ad abbandonare le stereotipie, le ecolalie, le eco prassie, l’auto ed etero – aggressività. Ci accorgeremo, in definitiva, che la maggiore serenità interiore acquisita permette loro di ricominciare un graduale cammino di maturazione psicoaffettiva, mentre, insieme all’aumento della loro fiducia in noi, è anche aumentata la fiducia negli altri e nel mondo. Solo allora noteremo la loro disponibilità ad accettare delle piccole variazione ai loro giochi o addirittura ci accorgeremo che sono disponibili ad accogliere un gioco da noi proposto e a loro congeniale. Alla domanda che spesso ci viene fatta se vi devono essere dei limiti alle espressioni del gioco libero autogestito, la risposta che diamo sempre è che il solo limite che noi vediamo è quando il loro gioco o la loro attività comporta un reale, importante pericolo per sé e per gli altri.

Rispettiamo i loro tempi. I bambini affetti da autismo sono diversi l’uno dall’altro per composizione genetica, per i vissuti traumatici trascorsi, per il tipo di difese che hanno messo in atto, per il loro retroterra familiare, per la maggiore o minore gravità dei problemi psicoaffettivi presenti nel loro animo. Non possiamo allora immaginare dei tempi che siano uguali per tutti. A ognuno di loro dobbiamo permettere di seguire una propria strada. Senza mai forzare. Senza mai avere fretta di arrivare ad una meta da noi prefissata e programmata. Anche in questo caso essi hanno bisogno del nostro rispetto più che della nostra sapienza.

Cerchiamo di modificare il loro ambiente di vita. Se l’insegnante riesce ad avere con questi bambini una relazione efficace come quella che abbiamo descritto si noteranno, come abbiamo detto sopra, in un periodo abbastanza breve, dei progressivi miglioramenti che però possono essere molto più importanti e rapidi se riusciremo anche a modificare qualche componente patogena dell’ambiente in cui questi bambini vivono.

Per fare ciò dobbiamo analizzare e poi cambiare in meglio tutti i comportamenti e le situazioni che possono essere nocivi al loro sviluppo psicoaffettivo, sia che questi elementi ambientali patogeni si trovino nella sua famiglia, sia che siano attivi nella scuola o nei vari ambienti da loro frequentati.

Nella loro famiglia possono costituire un grave elemento disturbante il conflitto genitoriale, gli eventuali disturbi psicologici dei genitori o familiari con i quali si trovano più in contatto, allo stesso modo può essere scarso o non adeguato ai loro bisogni il tempo trascorso con i genitori. Possiamo scoprire e modificare in modo positivo i ritmi frenetici a cui questi bambini sono forse sottoposti durante il giorno nell’effettuare le mille terapie proposte dai vari specialisti. Possiamo cercare di cambiare in meglio una gestione di questi bambini troppo oppressiva, se non traumatica a causa di continui rimproveri e frustrazioni. Possiamo, inoltre, cercare di diminuire un loro uso eccessivo della TV e dei video giochi così da lasciare più spazio al gioco libero e spontaneo.

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