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Italiani all’estero. Il vero “Made in Italy” da proteggere, promuovere e valorizzare

Il Rapporto “Italiani nel Mondo 2017”, presentato qualche giorno fa dalla Fondazione Migrantes, ci conferma gli impressionanti numeri della nuova mobilità. Sono, infatti, quasi cinque milioni gli Italiani residenti all’estero e iscritti all’A.I.R.E. Detto in altri termini, essi rappresentano oltre l’8% del totale dei residenti in Italia, con un aumento, nel solo 2016, di 124.000 unità.


Questi numeri, tuttavia, rendono conto solo in parte della dimensione di un fenomeno che ricorda quello del secondo dopoguerra, quando l’Italia era un "paese di emigranti": infatti, molti, lasciando il Paese, non si iscrivono all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero e, restando sconosciuti alle istituzioni, non entrano nelle statistiche ufficiali.

Al netto di una conoscenza di base, a noi non interessano tanto le statistiche, o meglio non interessa sapere con esattezza scientifica quanti connazionali hanno recentemente lasciato il nostro Paese. Ci interessa soprattutto prendere coscienza del fenomeno e della sua entità, conoscerlo nel dettaglio, comprendere le ragioni e le cause che lo alimentano: solo così saremo in grado di governarlo, di “navigarne l’onda”, di immaginare iniziative e programmi di sostegno a queste nuove mobilità.

Sono personalmente convinto che questo fenomeno, lungi dall'affievolirsi, sia probabilmente inarrestabile e destinato ad assumere in futuro dimensioni sempre più rilevanti, anche quando le condizioni economiche del Paese e il mercato del lavoro potranno offrire a tutti valide alternative all'emigrazione. Ne è una prova il fatto che tra le regioni con il più alto tasso di mobilità verso l'estero troviamo Lombardia e Veneto, che vantano indici molto alti  di produttività e di benessere economico. Se ne può concludere che una parte di questi nuovi migranti lascia il Paese in cerca di nuovi stimoli e di nuove esperienze. E continuerà a farlo. Il mondo globalizzato, in cui è ormai naturale muoversi facilmente e rapidamente, vedrà sempre più cittadini che, magari per un breve periodo della loro vita, decidono di fare e condividere nuove esperienze all'estero.

D’altra parte, è bene ricordare che la mobilità, la conoscenza e gli scambi tra le diverse culture del Vecchio Continente sono stati direttamente e convintamente promossi dalla stessa Unione Europea attraverso il progetto Erasmus, di cui nel 2017 si festeggia il trentesimo anniversario dalla nascita. Sarebbe miope e antistorico voler bloccarne i benefici effetti, positivi non solo per lo sviluppo di una moderna mobilità ma anche per l’inarrestabile crescita di un’identità europea in un’Europa in cui, nonostante la nazionalità dichiarata sul passaporto, non ci si sente più stranieri.

La maggior parte degli interventi che leggo in questi giorni a commento del Rapporto della Fondazione Migrantes, si sofferma sul depauperamento delle risorse umane che questa nuova mobilità provoca nel tessuto socio-economico del Paese. Certamente non possiamo non considerare che ogni persona che se ne va, specialmente se qualificata, porta con sé il suo bagaglio di conoscenza e di esperienze e, quindi, il suo potenziale contributo al Paese, senza contare la perdita del capitale investito per la sua formazione.

Una politica lungimirante deve non solo cercare di arrestare questa emorragia, creando in Italia le condizioni per far sì che l’emigrazione non sia dettata dalla necessità, ma risponda a una libera scelta, ma trasformare in risorsa la presenza degli Italiani nel mondo, anche per recuperare quel capitale che sembra andare perduto con la cosiddetta “fuga”.

Alcuni partono già con un contratto di lavoro in tasca; altri partono e basta, sperando di trovare fortuna. Gli uni e gli altri, in diversa misura, hanno tuttavia comuni esigenze quando devono affrontare le mille difficoltà legate all'inserimento nella nuova società d'accoglienza. Agli uni e agli altri le istituzioni devono fornire assistenza e risposte che li accompagnino nel nuovo cammino.

C’è un'altra "Italia fuori dall'Italia" di cui il Paese è chiamato a prendersi cura. Non si tratta solo di investire risorse, che pure sono importanti, per erogare servizi all'altezza di un grande paese. Si tratta soprattutto di fare in modo che gli italiani all’estero sentano la vicinanza del Paese e delle sue istituzioni, si sentano compresi, considerati, seguiti e protetti nel loro essere “cittadini del mondo”.

Per far questo, è necessario un impegno corale di tutti gli attori coinvolti, dalle istituzioni centrali alla rete diplomatico-consolare, dalle rappresentanze di base alle associazioni e ai patronati, dagli enti gestori agli Istituti Italiani di Cultura e alla Società Dante Alighieri.

Non più rinviabile, d’altro lato, è diventata una risposta all’esigenza, ormai pressante, di un differente e più moderno approccio a questo complesso universo. In generale, si sente la necessità di un cambio di passo nella gestione delle questioni riguardanti gli italiani all’estero. In una realtà globale sempre più veloce e mutevole (si pensi, per esempio, ai problemi nati, in un solo giorno, dal referendum sulla Brexit) le risposte della politica e dell’amministrazione dovranno essere altrettanto pronte, reattive e, quando necessario, creative. La stessa anagrafe AIRE sta dimostrando, ormai, tutta la sua staticità e obsolescenza, tanto che molti connazionali, riconoscendola ormai come una superflua “etichettatura”, quando non addirittura una vessazione o un’invasione della privacy da parte dello Stato, non ne utilizzano gli indubbi benefici, rinunciando addirittura al diritto di voto. Se ne ripensino le caratteristiche, facendone, nei limiti imposti dalla normativa, uno strumento vivo, di supporto e sviluppo del network dei talenti italiani nel mondo, in modo che l’iscrizione possa assicurare all’amministrazione la possibilità di dare ai cittadini servizi efficienti e puntuali e, al connazionale, un altro strumento da utilizzare per capitalizzare e mettere a frutto le proprie capacità all’estero e, se tornerà, nuovamente in Italia. Dal punto di vista fiscale, da un lato si pensi a implementare nuove soluzioni tecniche per facilitare, in entrambe le direzioni, il godimento dei diritti e dei servizi assistenziali e pensionistici; dall’altro, si proceda lungo la strada delle agevolazioni fiscali e tributarie verso chi è residente oltre confine, attraverso sgravi o esenzioni volte, soprattutto, al mantenimento e alla valorizzazione delle abitazioni ancora possedute in Italia, che rappresentano, anche fisicamente, il legame con la propria terra di origine e uno straordinario volano per l’economia italiana.

Naturalmente, se si vorrà veramente guardare al futuro, l’attore principale rimane la nostra rete consolare. Drasticamente ridimensionata con la chiusura di numerose sedi, essa non è sempre in grado, nonostante l’impegno dei suoi addetti, di rispondere con la necessaria rapidità ed efficacia alle richieste del cittadino. C’è bisogno perciò di pensare a nuove modalità nell’offerta di servizi che prevedano, per esempio, forme alternative di presenza consolare, servizi a distanza, digitalizzazione nel suo complesso della macchina amministrativa e dei suoi rapporti con l’utenza, semplificazione delle procedure, accordi di collaborazione, ecc. Tanto è stato fatto in questa direzione, ma è necessario accelerare l’andatura, essere maggiormente proattivi e reattivi per stare al passo con i tempi e con la velocità del cambiamento.

È necessario anche, e direi soprattutto, il coinvolgimento e la mobilitazione delle nostre collettività all’estero che non vogliono passare da spettatori passivi ma essere protagoniste a pieno titolo della vita sociale, politica e culturale del Paese. Sebbene abbiano stabilito all’estero il centro dei loro interessi, infatti, gli italiani residenti oltre confine non solo non hanno dimenticato le loro radici ma, anzi, vogliono continuare a nutrirle per riaffermare la propria identità culturale e l’orgoglio della loro appartenenza. Senza considerare che molti, dopo un periodo di lavoro all’estero, non escludono di tornare in Italia dove potranno condividere  i frutti delle loro esperienze.

Interpreti e portavoce delle loro istanze sono in primo luogo le rappresentanze di base, i Comites in primis, a condizione che siano anch’esse dotate di risorse sufficienti per assolvere ai compiti che la legge attribuisce loro. A un più alto livello di rappresentanza, i parlamentari eletti nella circoscrizione estero hanno fatto finora quello che era lecito aspettarsi nel contesto, soprattutto economico, in cui si è dipanata l’agenda politica degli ultimi anni. Molto più potranno fare se almeno uno di loro sarà investito in futuro di un qualche ruolo nelle sedi decisionali della politica.

Il voto degli Italiani all’estero, che la Costituzione della Repubblica riconosce esplicitamente e che qualcuno vorrebbe abolire o inficiarne l’effettività di godimento, rimane lo strumento principe per far sentire all’Italia la voce di quest’altra Italia oltre confine. Alle istituzioni incombe l’obbligo di perfezionarne le procedure per raggiungere tutti gli interessati a partecipare alla vita pubblica italiana e ascoltare le loro voci, per non disperdere quel valore aggiunto che la presenza capillare degli Italiani nel mondo può rappresentare per la promozione del “sistema Italia”.

Alessio Tacconi